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Storia del Gin (2): dal London Dry al proibizionismo

04 NOVEMBRE 2019

Avevamo lasciato l’Inghilterra nel caos più totale (ecco il link per chi si fosse perso il primo capitolo, con la Corona non in grado di gestire l’enorme successo del gin e le sue spiacevoli e inevitabili conseguenze.

 

Il Gin Act, che di fatto proibiva la distillazione illegale, pose le basi per la risoluzione del problema dell’autoproduzione.

 

Un giovane e intraprendente imprenditore, Alexander Gordon, già esperto di distillazione e di materia prima per il suo lavoro con il  whisky, decise di aprire nel 1742 a Finsbury, nel cuore di Londra, la sua distilleria.

 

Il Gin Act  aveva fatto piazza pulita dei produttori illegali, rendendo quella di Gordon praticamente l’unica distilleria legale ad operare in territorio inglese. Per sua fortuna alla fine del Seicento l’invenzione degli alambicchi a colonna che producevano alcool neutro aveva spostato il gusto del pubblico inglese verso un gusto alcolico più secco. La qualità del gin rispetto alle distillerie illegali era aumentata, a partire proprio dall’alcool di base, e dall’aroma derivante dall’utilizzo di botanici di qualità. Si trattava di quel gin che oggi conosciamo come London Dry, un distillato dallo spiccato aroma di ginepro e dal gusto più deciso, caratteristiche che ne avrebbero poi decretato il successo soprattutto nella “neonata” moda dei cocktail.

 

L’importanza assunta dalle botaniche, vide la nascita di distillerie soprattutto nelle zone portuali, dove gli scambi commerciali con l’estero le rendevano più facili da reperire. I rapporti tra il gin e il mare saranno di qui in poi sempre più stretti. Nel 1793 nacque nella città di Plymouth, la “Black Friars Distillery”, esistente e operativa ancora oggi.

 

Ad occuparsi della produzione erano i monaci benedettini del convento, come spesso succedeva in passato, in cui gli ecclesiastici erano tra i pochi ad avere le risorse per produrre alcolici. Plymouth non fu una scelta casuale, era infatti il porto da cui i benedettini si imbarcavano per raggiungere gli Stati Uniti, il nuovo continente da evangelizzare.

 

Il Plymouth gin e la sua variante Navy Strenght erano fino a pochi anni fa coperti da una delle poche DOC del mondo dei distillati. Per potersi fregiare della denominazione di Plymouth Gin, la produzione doveva avvenire con una metodologia e delle botaniche codificate da rispettare scrupolosamente.

 

Il Plymouth Navy Strenght, a cui i 56 gradi alcolici conferivano una maggior resistenza agli attacchi batterici, iniziò ad essere caricato su ogni nave in partenza, con funzioni corroboranti e preventive. Unito al succo di agrumi il gin infatti era un ottimo e molto gradito strumento di prevenzione delle malattie tipiche della vita in alto mare, come lo scorbuto.

 

I marinai inglesi furono corresponsabili della nascita dei cocktail a base gin, ancora oggi apprezzati come il Gimlet o il Gin Fizz. Anche l’evanginizzazione (se ci perdonate il terribile gioco di parole) degli Stati Uniti fu merito dei marinai inglesi. Gli americani, in larga parte all’epoca di origine inglese, mostrarono di gradire fin da subito la bevanda, sia liscia sia soprattutto come elemento portante dei cocktail. Sarà il bartender americano Jerry Thomas in quegli anni, il primo e più importante codificatore delle ricette di miscelazione che insieme al whiskey e al vermut vedono il gin come uno degli assoluti protagonisti.

 

Ma il vero responsabile della straordinaria fortuna del gin in America fu il Proibizionismo.

 

Per i distillatori illegali il gin era la manna dal cielo, la distillazione era relativamente simile a quella del Bourbon in cui erano già esperti, ma a differenza di questo non bisognava attendere l’invecchiamento per venderlo, non lasciando troppo a lungo ferme le botti con il rischio di essere scoperti e arrestati. Si arrivò addirittura a produrre il gin nelle vasche da bagno. Alla produzione illegale era ovviamente abbinato il consumo illegale.

 

Spuntarono come funghi gli speakeasy, locali segreti dove si ballava e si consumavano cocktail.

 

Gli speakeasy furono anche un incentivo per l’integrazione degli afroamericani, in cui a differenza dei ristoranti riservati ai bianchi era consentito l’ingresso. Gli speakeasy immortalati in dozzine di pellicole come “C’era una volta in America” erano luoghi eleganti dove spesso era richiesto un dress-code appropriato, ma che contribuirono ad avvolgere il gin e i cocktail, il Gin Martini in particolare, di un alone di stile ed eleganza che non avrebbe più abbandonato, anche quando il consumo di alcool ritornò legale.

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